Lontano dagli occhi. Visita a Buchenwald

Written by passengerzero

26 Settembre 2017

La proiezione ritrae una scena di vita quotidiana nella tranquilla cittadina di Weimar. Deve trattarsi di un giorno della primavera del 1943. Alcune persone sono sedute fuori da un caffè e vestono abiti leggeri. Molti chiacchierano serenamente, altri sorseggiano bevande e un signore distinto legge un giornale.

La scena suggerisce un’atmosfera normale. Niente di strano, insomma. Se non fosse che dall’alto dell’edificio adiacente a quel caffè penzolano “normalmente” due grandi bandiere naziste. Non è questo, tuttavia, quello che desta il mio interesse. Da tempo, ho smesso di sorprendermi del modo in cui le masse si adeguano al potere senza farsi troppe domande. Una chiara perplessità viene, però, a galla dal fondo delle mie viscere.

A una decina di chilometri da quel caffè, nascosto dal verde della foresta, sorge il campo di concentramento di Buchenwald

Ho appena terminato il giro degli edifici in compagnia di Marika e Doreen, la nostra amica tedesca. Da quando abbiamo varcato il cancello del campo, le parole tra noi hanno smesso di scorrere. Anche gli altri visitatori presenti sembrano non essere molto loquaci. Si cammina sulla ghiaia dei viali che ospitavano le baracche e si entra nei pochi edifici rimasti in piedi. Ci si sofferma davanti alle targhe che spiegano cosa sorgeva in quel punto del campo. La vista scorre dal grigio del cielo al cemento delle pareti finendo sul bianco e nero delle foto. Ci si commuove, si inorridisce, ci si vergogna.

Nella cantina dell’edificio che ospitava il forno crematorio ho avuto un conato di vomito. Sono uscito velocemente da quella orrida stanzetta. Chissà quante volte è già stata ripulita e disinfettata… Eppure l’odore della morte, là sotto, è ancora percepibile. Dal muro spuntano gli uncini a cui le SS appendevano gli “ospiti” del campo per sfoltirne il numero eccessivo. Era stata certamente una scelta astuta quella di ucciderli direttamente nel locale dei forni. Non si era corso il rischio di essere visti mentre si trasportavano i cadaveri, seminando il panico tra gli altri prigionieri. Gli spari avrebbero certo attirato l’attenzione. Una pratica corda sul collo assicurava un’esecuzione silenziosa. Una volta strangolati, poi, era facile tirarli giù dagli uncini e buttarli sul montacarichi per la bocca del forno.

La fabbrica della morte era stata organizzata meticolosamente.

Che dire poi della “catena di smontaggio” degli esseri umani. Quella era pianificata persino meglio! Un uomo o una donna si distinguono dagli altri per un mucchio di fattori. Il tesoro di essere persone sta nella diversità. È bello pensare che ognuno di noi sia unico e irripetibile. Ma i nazisti avevano pensato anche a questo. Tolti i vestiti, tolti i capelli e la peluria, si finiva con l’essere indistinguibili. Una volta tolto il cibo, poi, si diventava davvero tutti uguali: un mucchio di scheletri pallidi dalle ossa pronunciate sotto la pelle sempre più sottile.

Doveva essere facile per una SS macellare quelle “cose” che avevano ormai perso quasi ogni sembianza di umanità.

Oh, non fraintendetemi, non sto dicendo che se fossero stati ben vestiti e corredati di barba e capelli le SS si sarebbero tirate indietro. Figuriamoci! Gli uomini del Fuhrer sono gente seria! Gente che esegue gli ordini. Insomma, dei ragazzi affidabili!

E io, anche se li cancellerei dalla storia, anche se impedirei alle loro madri di darli alla luce, anche se li odio, non riesco davvero ad avercela con loro. Il capitano delle guardie di Buchenwald, ad esempio, era conosciuto come un omicida compulsivo… Insomma, un malato di mente, proprio come il suo caro Fuhrer.
Io proprio non riesco a prendermela più di tanto con un malato di mente. Sarà che sono abituato a familiarizzare con i pazzi, ma mi sono sempre sembrati innocui. Forse sbaglio a non averne paura, però è così. Un pazzo non mi fa paura.

Chi mi fa paura è quella signora che ride con l’amica seduta al tavolino di quel caffè. Chi mi fa rabbrividire è quel pacifico giovanotto che sorseggia il suo tè caldo. Chi mi fa davvero paura è quel signore distinto che legge il suo giornale proprio sotto le bandiere, a una manciata di chilometri dalla più immonda schifezza che l’umanità abbia mai conosciuto.

Le facili soluzioni mi fanno paura, l’accondiscendenza mi fa paura, l’indifferenza mi fa paura.

Mi ripeto spesso che quello che è successo nei campi di sterminio non potrà mai più ripetersi in un paese civile. Stasera ho il dubbio sincero che quella che cerco di raccontarmi sia solo una storiella utile per riuscire a prendere sonno.

Addormentarsi non è facile la notte dopo Buchenwald. Tuttavia c’è una speranza. La speranza nascosta in quel conato di vomito e negli sguardi imbarazzati dei visitatori. C’è della luce in quel senso spontaneo di  vergogna che porta un uomo a chiedere “scusa” anche per tutti gli altri, persino per quelli seduti al caffè.

“Non omnis moriar.” Finché ricorderemo.

 

 

 

 

 

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