Bali Capitolo 4: I templi di Ubud

Written by passengerzero

10 Luglio 2017

Il tassista ci lascia all’imbocco di una strada sterrata suggerendoci di camminare fino in fondo. Prendiamo i nostri pesanti bagagli e, caricati come muli, trasciniamo i nostri trolley sul fondo polveroso della viuzza che costeggia alcuni campi di riso irrigati. Bastano pochi passi per iniziare a sentire il sudore grondare dalla fronte. È all’incirca mezzogiorno e le stradine sono deserte. Solo qualche cane passa di casa in casa alla ricerca di qualcosa da mangiare. Ne abbiamo visti molti di bastardini abbandonati a loro stessi in questi giorni. È capitato di incontrarne di morenti ai lati delle carreggiate. A quanto sembra, quella dei cani randagi è una vera e propria emergenza qui a Bali. La povertà delle famiglie, unita alla mancanza di una vera e propria cultura in questo senso, sembra avere un effetto nefasto sulle sorti di questi animali.
Al contrario di quanto succede dalle nostre parti, a passarsela bene, qui, sono le mucche. In un piccolo cortile, all’ombra delle palme, è stata costruita una mangiatoia. Poco distante, sdraiata sotto agli alberi, riposa tranquilla una vacca ben nutrita e curata. La tradizione indù prevede la venerazione delle mucche che vengono considerate sacre. È curioso come una differenza culturale possa ribaltare le convinzioni da un posto all’altro. Credo che lo stesso sconforto che coglie noi occidentali nel vedere come vengono trattati i cani in questa parte di mondo lo possa sperimentare un induista davanti al menu dei nostri ristoranti.
Quando arriviamo nei pressi della via della nostra nuova dimora, il sudore mi ha già completamente inzuppato la maglia.
Raggiungiamo la reception e ci presentiamo. I nostri tre giorni al resort sono stati un premio che ci siamo regalati per compensare la selvatichezza della nostra avventura neozelandese. In un anno e mezzo di Nuova Zelanda non sono mai stato in una camera di hotel. Per quanto qui a Bali i prezzi degli alberghi siano bassi, sapevamo dall’inizio che non avremmo potuto soggiornare per tutto il tempo in una sistemazione di prima classe. Così eccoci qui, inzuppati di sudore, mentre un inserviente ci accompagna al nostro piccolo monolocale. L’appartamento è piuttosto spartano, ma anche molto economico. Sistemiamo la nostra roba e lasciamo scorrere la calura del mezzogiorno.
Secondo il navigatore che ho istallato sullo smartphone, non distante da dove siamo ora c’è uno dei templi che avevo segnato sulla lista delle cose da vedere.

Ci vestiamo e usciamo. Percorriamo a piedi i viottoli sterrati fino ad incrociare la strada asfaltata. Diventa subito chiaro che questa passeggiata non sarà affatto una passeggiata… Impieghiamo circa dieci minuti ad aspettare l’opportunità di attraversare la strada senza dover rischiare di essere investiti da auto e motorini. Una volta che siamo sull’altro lato, la situazione non migliora. Non esiste un vero e proprio marciapiede e dobbiamo costantemente cercare riparo nelle rientranze della carreggiata per toglierci dalla traiettoria dei mezzi in transito. Camminare in queste condizioni e sotto questo sole è improponibile. Ecco spiegato il motivo per cui siamo gli unici pedoni in tutta l’area. Raggiungiamo finalmente uno svincolo e ci immettiamo su una via meno trafficata che porta fuori dalla città.
Secondo il mio GPS manca solo un quarto d’ora all’arrivo. Camminiamo nella calura per almeno venti minuti prima che io mi accorga che il mio navigatore non ha la minima idea di dove mi stia portando. Marika è stremata e si ferma a riprendere fiato sotto un albero. Con il mio solito ottimismo cosmico la convinco a proseguire per un altro po’, pensando che il navigatore non possa essersi sbagliato così tanto… Altri venti minuti di suole infuocate mi fanno cambiare idea. Ora siamo entrambi stremati e l’idea di rifare la strada a piedi ci sembra un’idiozia. Io ho trascinato entrambi in questo pasticcio, io dovrò inventarmi qualcosa per venirne fuori. Entro in una stretta via di abitazioni e scorgo, seduto fuori da una di esse, un uomo che avrà all’incirca la mia età vestito con gli abiti tradizionali. Mi avvicino e provo a parlargli in inglese. Fortunatamente il giovane mi capisce e spiega che sono ormai fuori da Ubud e che per tornare non ci sono mezzi pubblici. Taglio corto e gli chiedo quanto vuole per un passaggio. Marika ed io montiamo sulla macchina del ragazzo che, per poco più di tre euro, ci riporta al nostro albergo. Non so quante probabilità avevo di perdermi e di finire con l’incontrare, tra tutte le persone in cui mi sarei potuto imbattere, un giovane balinese che lavora per una compagnia di crociere italiana! Iniziamo una lunga chiacchierata in cui il nostro nuovo amico sfoggia qualche espressione nella mia lingua. Mi sento onorato e divertito. Arrivati all’albergo, lo ringrazio e ci scambiamo i contatti.
Alla fine della giornata, la mia idea discutibile di muoversi a piedi tra il traffico e il caldo si rivela la grande cazzata che era. Probabilmente a causa di un colpo di calore, Marika ha la febbre alta. Devo noleggiare un motorino e lanciarmi come un ninja nelle strade di Ubud per recuperare del paracetamolo.
La febbre scende solo il giorno seguente. Provo con timidezza a chiederle se se la sente di andare a vedere i templi intorno a Ubud, ma, come mi aspettavo, vengo prontamente mandato al diavolo. Non mi resta che inforcare il mio motorino e partire in solitaria alla scoperta dei luoghi di culto più importanti della regione.
Mi butto in strada di buon mattino e riscopro la mia abilità di pilota di cinquantino che credevo di aver perso con la maggiore età. Tutte le acrobazie, le frenate e le sgommate che a sedici anni usavo per attirare l’attenzione delle ragazzine ora mi servono per dimenarmi nella giungla del traffico balinese.
Provo a seguire di nuovo il mio GPS, ma imparo per la seconda volta che non mi posso fidare. Mi fermo quasi ogni chilometri per chiedere ai passanti se sono sulla strada giusta. Alcuni non parlano inglese, ma riescono lo stesso a rispondere. Ci metto un bel po’ a raggiungere la prima delle tappe del giorno: il famoso Goa Gajah. Appena fermo il mio scooter nel parcheggio, vengo circondato da alcune commercianti che cercando di appiopparmi i loro Sarong. Per accedere ai templi di Bali è richiesto di indossare questa specie di “pareo” che copre le gambe.
Riesco a dissuadere le venditrici convincendo una di loro a prestarmene uno per la sola visita al tempio. La donna lega il Sarong intorno alla mia vita e mi dà il via libera. Tutti i templi principali prevedono l’acquisto di un biglietto di entrata di circa 20.000 rupie.
Pago e scendo lungo la scalinata che porta nel cortile principale dove si trovano la pagoda, le vasche per la purificazione, alcuni altari e l’ingresso alla famosa Grotta dell’elefante. Non è chiaro perché venga chiamata in questo modo. Quel che è dato per certo è che, in realtà, la mostruosa figura scolpita sull’ingresso sia il volto della divinità indù Bhoma.
Entrando all’interno della bocca spalancata del demone, si accede ad uno stretto e buio corridoio dove sono presenti piccole cellette, una delle quali ospita la statua di Ganesha.
L’intera area del Goa Gajah risale all’undicesimo secolo ed è stata edificata come luogo di meditazione. Di più recente costruzione sono invece le vasche esterne che risalgono agli anni cinquanta.
Esco dalla grotta e mi dirigo verso una scalinata che dal cortile principale scende nel fitto della foresta. Qui è presente uno stagno. Un ruscello scorre tra alcune rocce in direzione della vallata sottostante. Un ponte di pietra permette di attraversarlo e un’altra scalinata di pietra risale l’altro versante fino ad un piccolo tempio. Un sacerdote ha acceso degli incensi e sta pregando davanti ad un altare. Mi vede e mi fa cenno di raggiungerlo. Mi invita a posare la telecamera e ad unirmi a lui per una preghiera. Recita una formula in una lingua che non so riconoscere e passa un bastoncino di incenso vicino a me in modo che il fumo mi tocchi. Prosegue con la benedizione, ringrazia gli dei e mi presenta il conto… Lascio un’offerta in denaro e mi riprendo la telecamera indispettito. Proseguo oltre il tempio su un sentierino che si addentra sempre di più nella foresta. Arrivo davanti ad una capanna dove incontro un uomo che mi porge un cestino… Stavolta l’offerta che mi viene richiesta è per poter passare oltre un piccolo cancello di legno. Spiego che ho già pagato l’ingresso al tempio, ma l’uomo mi fa capire che oltre il cancello non mi troverò più nell’area del Goa Gajah. In quella direzione ci sono altri piccoli templi privati che potrei visitare. Lascio una piccola offerta e proseguo rassegnato. Dopo qualche centinaio di metri di fitto fogliame e di liane mi ritrovo in un piccolo tempietto che sporge sulla vallata sottostante. Almeno qui trovo un po’ di riparo dalla massa di turisti del cortile principale. Seguo ancora il sentiero che porta ad altri tre templi minori immersi nella foresta. Arrivato ad un punto cieco, decido di tornare sulla via da cui sono venuto. Ritorno al parcheggio dove restituisco il Sarong alla sua proprietaria e mi riprendo il motorino.
Ci metto un po’ a capire come mai la chiave non entra nel foro per l’accensione. Un blocco metallico scatta ogni volta che si blocca lo sterzo. Per disattivare questa specie di antifurto bisogna usare una parte dell’impugnatura della chiave. Mi vergogno un po’ quando una delle donne mi fa cenno di lasciar fare a lei e mette in moto per me.
La seconda parte della mia giornata mi vede perdermi innumerevoli volte tra le strade dei piccoli villaggi della regione del Gyaniar. Il mio GPS continua a darmi filo da torcere. Sono costretto ad accostare molte volte e a fermare i passanti per chiedere indicazioni. Man mano che mi allontano dalla città, le persone diventano più sorridenti e le indicazioni più incomprensibili. In questi villaggi nessuno parla inglese e tutto quello che posso fare è gesticolare e ripetere il nome dei luoghi che cerco. Molte delle persone che disturbo sono molto contente di parlarmi e cercano di capire da dove provengo. Qualcuno, sentendo la risposta, inizia ad elencare nomi di calciatori italiani più o meno contemporanei. Alla fine, chiedere indicazioni diventa un gioco divertente che rende meno frustrante la mia “mosca cieca”. Incontro anche uno strano individuo che mi segue con il suo scooter invitandomi ad accostare. Una volta che mi ha raggiunto si presenta. Dice di chiamarsi Ketut e di essere un’esperta guida locale. Ne approfitto per chiedere la direzione per il tempio che cerco. Lui mi invita a seguirlo. Mi accompagna fino all’ingresso e si offre di farmi da cicerone in cambio di denaro. Sono stato già preso alla sprovvista due volte in mezza giornata e mi rifiuto. Spiego che non sono esattamente un turista in vacanza, ma un viaggiatore a cui il denaro serve per sopravvivere. Ketut mi invita ad entrare al tempio e dice che mi aspetterà qui fuori per bere un caffè insieme al mio ritorno. Parcheggio il motorino e mi avvio all’entrata del Gunung Kawi, chiamato anche “la tomba dei re”. Una scalinata conduce in discesa attraverso i terrazzamenti del riso fino ad un sentiero di pietra. Seguo il sentiero a sinistra e scorgo, sulla facciata di un’alta parete, quattro enormi statue commemorative alte circa sette metri scolpite nella roccia. Il Gunung Kawi è un enorme sito funerario le cui tombe, statue e sculture sembrerebbero essere dedicate ai rappresentanti di alcune delle dinastie regnanti in questi territori.
Tornato sul sentiero, attraverso un ponticello di pietra che porta all’altra sezione del sito. Qui ci si ritrova a camminare tra diversi altari e una fessura nella roccia conduce ad una specie di labirinto di sepolture. Per accedere a questa zona viene richiesto di procedere a piedi scalzi. La sensazione del muschio bagnato sotto i piedi e l’atmosfera umida e tetra non sono tra le cose migliori che abbia sperimentato, ma bisogna ammettere che questo luogo è molto affascinante. Ritorno al viottolo di pietra e mi ritrovo davanti ad una serie di sculture identiche a quelle incontrate all’inizio. Stavolta cinque alte statue sono state scavate nella roccia della montagna. Il Gunung Kawi è completamente immerso nella foresta e attraversato dal fiumiciattolo Sungai Parikerusansan. L’atmosfera suggerisce raccoglimento e pace.
Sul versante meridionale del sito si trova un sentierino che conduce ad un altare di roccia circondato da alcune grotte in cui i monaci si dedicavano alla meditazione.
Torno verso l’entrata percorrendo la lunga e ripida scalinata che avevo disceso all’inizio. Arrivo in cima completamente cotto dal sole del pomeriggio. Mi fermo per dissetarmi e riprendere le forze per l’ultima visita. Arrivato al motorino non trovo Ketut. Sto già per cantare vittoria quando un robusto signore sulla cinquantina mi afferra il braccio e inizia a parlarmi a pochi centimetri dalla faccia. Da quel poco che riesco a capire mi sta invitando a bere un caffè nella sua tenuta. Mi parla di una fattoria dove si coltiva caffè biologico, il più buono di tutta Bali.
Provo a divincolarmi usando un milione di scuse. L’unica che funziona è quella che chiama in causa Marika. Spiego che la mia ragazza non sta bene e devo muovermi a tornare a Ubud per portarle le medicine (nemmeno troppo lontano dalla verità). Metto in moto e mi rimetto in strada verso il vicino Tirta Empul. Questo tempio è stato costruito in prossimità di alcune sorgenti ritenute sacre e la cui acqua sarebbe in grado di purificare l’anima di chi vi si immerge. Stavolta decido di parcheggiare il mio scooter lontano dall’ingresso principale per non imbattermi in altri personaggi strambi. Passo per la biglietteria, pago l’ingresso, mi procuro un Sarong ed entro attraverso un meraviglioso giardino nell’area del tempio. Una gigantesca statua di demone dà il benvenuto e mette in guardia sulla sacralità di questo luogo.  Il complesso è gigantesco e, a quest’ora del pomeriggio, c’è una grande quantità di visitatori tra turisti e fedeli. La pagoda è gremita di persone in abiti tradizionali che chiacchierano tra loro. Nelle vasche cerimoniali moltissimi si stanno muovendo in fila, come in una processione, per farsi purificare dall’acqua che cade da alcune bocche scolpite nella pietra. Mi fermo ad osservare il rituale. Sono venuto a Bali perché mi mancavano la cultura antica, la spiritualità e l’arte. Non posso che sorridere di fronte al materializzarsi di tutte queste cose. Ancora mi ritrovo a percepire, quasi fosse qualcosa di palpabile, la grande magia di quest’isola.
Riprendo la mia marcia girando tra gli altari e fermandomi ad osservare i riti di preghiera compiuti con gesti sinuosi che somigliano a danze. Qui, la celebrazione religiosa non ha bisogno di soffitto e pareti. Tutto avviene alla luce del sole, senza limitazioni per chiunque voglia prenderne parte.
Non so dire se esista o meno una qualche entità divina in questo universo, ma, se così fosse, credo che questo sia un modo meraviglioso di renderle omaggio.
Riprendo il mio motorino alla fine della giornata e torno a Ubud passando per una strada che mi è stata indicata da un venditore ambulante. Questa via passa attraverso piccoli villaggi ed è circondata dai campi di riso. Il manto stradale sembra una fetta di groviera con tutte le sue buche, ma perlomeno non c’è traffico. Mi fermo davanti a un negozietto isolato. Entro e compro una bottiglietta di tè. Mi siedo sui gradini esterni a godermi un po’ di calma. Un’arietta leggere accarezza i campi di riso. È stata una giornata lunga, calda e memorabile. Ubud mi ha offerto occasioni per meravigliarmi e per scoprire a fondo la cultura di quest’isola. Ora è tempo di muoversi. Non appena Marika si rimetterà, ci muoveremo verso la costa. 

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