Nonostante la sveglia stia squillando presto, il nuovo giorno ci trova con gli occhi aperti da tempo. Non è proprio cosa facile rilassarsi quando si sta per partire per un viaggio che si stava programmando da quasi un anno.
Salto giù dal letto e mi precipito giù dalle scale della villetta. Seduto nel soggiorno, David sta sorseggiando il suo tè inglese macchiato col latte.
– Ready to go? – Mi chiede sorridendo.
Faccio un cenno di assenso e mi dirigo in garage per raccogliere le ultime cose. Marika nel frattempo si occupa dei panni stesi reduci della lavatrice post Coromandel. Apro la basculante e la Whale mi appare in tutto il suo splendore. Chissà per quanto tempo durerà così pulita e luccicante. Apro il portellone laterale e sistemo le mie cose nel vano cassapanca. Abbasso il tavolino e lo fisso. Marika arriva con le lenzuola. Facciamo il “letto” e sistemiamo gli zaini nella stiva.
Chiediamo a David di scattarci qualche foto per immortalare la nostra partenza. Penso per un attimo a tutto il lavoro, mio e dei miei amici neozelandesi, che c’è voluto per mettere finalmente questo bizzarro camper sulla strada.
Marika ed io abbracciamo David. Non sarò mai grato abbastanza a quest’uomo che mi ha ospitato per ben tre mesi in casa sua e che si è dedicato a costruire la Whale in cambio della mia discutibile cucina. L’idea di partire mi accende come una lampadina, ma salutare Auckland e la mia vita qui in città mi rende malinconico. Da buoni italiani, Marika ed io ci commuoviamo non appena ingrano la retromarcia. In un attimo siamo fuori dal vialetto e puntiamo verso la Highway 1 che ci porterà sulla baia. Alla porta della mia memoria bussa un ricordo che mi restituisce una sensazione simile a quella. Torno a tre anni prima di allora, quando siamo partiti dalla casetta di Brisbane per esplorare la costa est dell’Australia. Le sensazioni sono le stesse. Libertà ed eccitazione miste a una sana inconsapevolezza di quello che ci aspetta.
In pochi minuti siamo sull’autostrada. Lasciamo scorrere alla nostra sinistra il centro di Auckland con il porto e il Rangitoto che fa il bagno nell’oceano. Quella era la strada che facevo ogni mattina per andare al lavoro.
– Oggi mi porterà un po’ più in là! – Penso sorridendo.
L’autoradio canticchia qualcosa mentre gli ultimi edifici della città iniziano a lasciare spazio al verde delle colline. Anche l’oceano alla nostra sinistra si allontana. Dalla costa ci spostiamo in direzione sud-ovest verso l’entroterra. A pensarci bene, c’era una via diritta che procedeva verso sud e saremmo potuti arrivare a Wellington con un giorno di anticipo. Tuttavia, le strade dritte non sono mai state il mio forte e nemmeno quelle asfaltate mi sono mai piaciute granché.
La nostra destinazione è la Forgotten World Highway (come resistere a un nome così)! Quella che i neozelandesi definiscono un’autostrada è, in realtà, un tracciato sterrato tra le cittadine di Taumarunui e Stratoford.
La lunghezza del percorso è di circa 150 chilometri e non ci sono pompe di benzina. Mi assicuro di fare un rabbocco del carburante prima di arrivare al punto dove la striscia d’asfalto lascia il passo ad una stradina di terra battuta.
Il paesaggio di prati e pecorelle al pascolo si trasforma presto in una fitta foresta che si estende tra le gole e le montagne del King Country. Lo scenario è suggestivo mentre si costeggia il fiume e si ammira la rigogliosa vegetazione riempire le vallate tra le pareti verticali che le delimitano.
La nostra meta del giorno è a soli 80 chilometri dall’inizio della Forgotten World Highway. Relativamente pochi se si pensa ad una normale autostrada. Questa distanza percorsa su di un tracciato di curve, senza asfalto, dove l’unico rumore udibile è il fruscio delle gomme tra ghiaia e terra, sembra molto più lunga.
Arriviamo nel tardo pomeriggio davanti al cartello che ci dà il benvenuto nella Repubblica di Whangamomona. Mi chiedo se ci sia da preparare i passaporti visto che stiamo cambiando stato. Eh già! Nel 1989, questo piccolo territorio che conta circa 3500 abitanti e si estende nel mezzo del nulla, si è dichiarato indipendente dalla Nuova Zelanda e ha deciso di fondare tra questi campi e queste foreste uno stato indipendente. Non saprei dire che valore giuridico abbia questa repubblica, ma forse è troppo lontana ed isolata perché il governo centrale si prenda la briga di ingaggiare una lotta per la riconquista. Sia gli abitanti di Whangamomona che i neozelandesi sembrano vivere pacificamente questa trovata. Un amico mi ha detto che nella repubblica di Whangamomona è persino possibile sposarsi ed ottenere un certificato di nozze che sarebbe valido, però, solo in quei pochi chilometri quadrati. Potrebbe essere un’idea… O forse la stanchezza mi sta dando alla testa… D’altronde il sole sta per calare e noi dobbiamo trovare una sistemazione per la notte.
Lasciatoci alle spalle l’unico saloon del villaggio che ha la fama di essere un pub di buonissimo livello, prendiamo una stradina laterale che ci porta fuori dal centro abitato (se così lo si può definire). In pochi minuti siamo all’ingresso del campeggio che ci avevano segnalato. Un minipony dalla criniera bionda pascola pacifico in un campo circondato dalle colline dove, oltre a noi, sono ospitati pochi altri caravan.La reception del camping consiste in una vecchia roulotte dalla quale spunta un uomo di mezza età vestito opportunamente in stile country con un corredo di salopette e camicia a quadri. Chiedo il prezzo per la notte e mi faccio mostrare i servizi della struttura.
Gli spogliatoi e le docce sono ospitati in un grosso edificio di recente costruzione mentre la cucina è allestita in una piccola baracca sul retro. Nella doccia, il sollievo dell’acqua calda fa da contrasto all’aria fredda della sera. Ci rivestiamo in fretta per approfittare dell’ultima luce del giorno. Trasportiamo padelle e stoviglie dalla stiva della Whale alla cucina. Questa parte del camping è piuttosto vecchia e malridotta. Le ragnatele penzolano dappertutto, i fornelli sono incrostati e preferiamo non avvicinarci al frigorifero. Ringrazio il cielo di avere comprato tutto l’occorrente per preparare la cena in autonomia. Mentre sto per buttare la pasta, Marika caccia un urlo e scappa all’esterno. Un’ape gigantesca entra da una fessura nella finestra e si mette a ronzare nel piccolo stanzino. Combattendo con un cucchiaio di legno, proteggo me stesso e la cena. Riesco a scolare e impiattare la pasta e porto tutto fuori. Mangiamo ad uno dei tavoli posizionati nel campo dove è parcheggiata la Whale. La sera è ormai calata e si può sentire solo il rumore del vento nell’erba. Laviamo le stoviglie e ci prepariamo per la notte. Dopo esserci lavati i denti e messi le tute, ci incastriamo nella Whale. Spenta la luce e tirate le tendine, rimaniamo al buio ad ascoltare i rumori della natura che ci circonda; il tettuccio trasparente lascia intravedere il cielo. La notte è più fredda del previsto e impariamo presto che le coperte che ci ha dato David non saranno sufficienti a ripararci dal freddo dell’isola del sud. Ma il sud è ancora lontano e per ora un abbraccio può bastare.
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