Il minibus ci lascia ancora all’imbocco della Monkey Forest Road. Stavolta, però, noi continuiamo sulla Jl.Hanoman in direzione del centro. Non ci vuole molto a capire che Ubud è il cuore culturale e artistico di Bali. Le strade sono un susseguirsi continuo di botteghe di statuette, dipinti e sculture che si alternano ai caffè dove i turisti oziano pacifici nei loro abiti leggeri.
Persino il più banale dei negozi di souvenir propone opere di artigianato locale in quantità industriali.
A parte quelle in vendita ai banchetti, le opere che suscitano la mia meraviglia sono quelle che si intravedono nei cortili delle case e all’ingresso dei templi. Archi, porte, altari e statue sono lavorati con una maestria dal sapore antico. Ancora una volta mi è difficile distinguere le abitazioni dai templi veri e propri. Il fatto che gli ingressi non siano protetti da un vero e proprio portone mi porta a scattare foto in un cortile di una casa privata che ho scambiato per un luogo di culto. Cancelli e telecamere sono soppiantati dalla statuetta di Ganesha. La divinità hindu con la testa di elefante protegge gli usci dalle cattive intenzioni e dà il benvenuto ai visitatori.
Il suono delle musiche provenienti dai locali ai lati della strada si mescola all’incessante rumore di traffico e clacson. Nell’aria si sente forte l’odore degli incensi. Sui marciapiedi, davanti ai negozi, qualcuno ha posato dei cestini di foglie intrecciate contenenti fiori colorati, frutta, profumi, caramelle e in alcuni persino sigarette. Si tratta dei canang sari, ovvero dei doni agli dei e ai demoni. L’offerta agli spiriti è una parte importante della spiritualità di questo luogo che tratta il divino quasi come se fosse una persona da nutrire, ringraziare e della quale è meglio restare amici. A metà mattina, molti di questi cestini sono stati calpestati dai pedoni, ma poco importa. I doni vengono rinnovati continuamente.
Proseguiamo nella nostra camminata fino all’incrocio con la Jl. Raya Ubud. Quest’ultima è la via principale della città e qui il traffico è ancora più intenso. Arriviamo all’ingresso dell’Ubud Palace. La costruzione ospita la residenza della famiglia reale. Attorno a questo palazzo e al luogo su cui è sorto, esistono storie di mistero e di rivelazioni divine. L’area è costituita da una serie di cortili collegati tra loro. Ognuno di questi ospita altari e pagode impreziositi da sculture. La parte aperta al pubblico non è molto grande, ma rende sicuramente l’idea dell’eleganza della dimora reale. È un piacere potersi muovere tra queste mura e respirarne l’atmosfera tipicamente orientale. Tuttavia, il gran numero di turisti che brulicano in questa zona rende la visita meno rilassante.
Proseguiamo dunque verso il vicino mercato della città: il famoso Ubud Market. Una serie di stretti vicoli si snoda in questo quartiere che ospita una quantità inimmaginabile di banchetti e botteghe. Vi si trova di tutto: dalle spezie agli abiti tipici, dagli strumenti musicali al gelato italiano…
Accanto ai prodotti della tradizione balinese, ci sono articoli decisamente più moderni che imitano i grandi marchi di abbigliamento occidentale.
Venendo dall’inverno neozelandese, non ho con me molti abiti estivi, così decido di approfittarne. La trattativa inizia ancora prima di entrare nei negozi. I proprietari stanno sull’uscio e cercano di adescare i passanti offrendo sconti pazzeschi su tutta la mercanzia. Decido di premiare la venditrice meno aggressiva. Entro in una piccola bottega gestita da una pacifica signora sulla cinquantina. Gli abiti sono esposti in massa e in ordine sparso. Riesco a recuperare due paia di pantaloni in lino. Vengo fatto accomodare in uno stanzino dove posso provare gli indumenti. Purtroppo nessuno dei pantaloni è della mia taglia.
Indosso di nuovo i miei calzoncini e saluto la signora del negozio. Riprendiamo il nostro tour tra i vicoli dove ci sorprendiamo di vedere dei motorini circolare tra la folla. Nel cuore del quartiere sorge anche la parte coperta del mercato dove botteghe e bancarelle riempiono alcuni edifici e cortili. Ci fermiamo davanti ad un banco di statuette. A Bali l’arte di trattare i prezzi è fondamentale. A meno che non ci si trovi in un supermercato, bisogna mettere in conto almeno una ventina di minuti per pagare un prezzo decente per qualsiasi articolo. La mia decennale esperienza nelle vendite non serve a molto. Dopo un’estenuante trattativa, faccio per estrarre il mio portafogli con le rupie che ho appena ritirato dal bancomat. Impallidisco all’istante quando scopro che la mia tasca è vuota. Devo aver lasciato il mio portafogli con tutti i soldi, le carte di credito e i documenti nello stanzino dove mi sono provato i pantaloni. Mi metto a correre facendomi largo tra la gente sulla via da cui sono venuto. Non riesco a riconoscere punti di riferimento. Le vie e le botteghe sembrano tutte uguali. Non troverò mai il minuscolo negozietto in cui avevo provato quei calzoni. Quando mi sono ormai abbandonato a darmi dell’idiota, sento una voce: – Mister! – Due signore mi vengono incontro e mi indicano il posto che sto cercando. All’ingresso trovo la proprietaria che mi fa capire che il mio portafogli è dove l’avevo lasciato e che nessuno ha toccato nulla. Entro nello stanzino. Effettivamente, è come mi è stato detto: nessuno ha toccato la mia roba, nemmeno per spostarla.
Sono sorpreso. Provo a pensare a quante probabilità avrei avuto di ritrovare i miei soldi se la stessa cosa mi fosse successa in Italia. Senza contare che non siamo di certo in un paese ricco. Qui, solo con i duecento euro in contanti che avevo appena prelevato, ci camperebbe una famiglia intera per almeno mese… La spiritualità di questo posto si materializza di nuovo davanti a me. Questa volta sotto forma di un nobile gesto. Mi inchino a ringraziare la signora del negozio. Mi offro di lasciare una ricompensa, ma mi viene risposto che ci penserà il karma a ripagare il bene compiuto. Decido che, sebbene la taglia non mi vesta perfettamente, comprerò i calzoni che avevo provato.
Lascio il mercato di Ubud con un paio di pantaloni di lino e una grande lezione di umanità.
Continuiamo la nostra visita dirigendoci verso il Blanco Museum.
Don Antonio Blanco era un artista di origine filippina, ma cresciuto in Spagna. Fu influenzato dall’opera di Salvador Dalì e lavorò su quella stessa linea ad un’arte eclettica e variopinta. Trasferitosi a Bali nel 1952, si innamorò dell’isola e decise di farne la sua casa. Lo studio dell’artista sorgeva su di una collina circondata di lussureggiante vegetazione tropicale. Quell’enorme costruzione, che era anche la sua dimora, fu trasformata in un museo dove sono tuttora esposte le sue opere.
Arriviamo ai piedi della collina e iniziamo a salire sotto l’arco che dà il benvenuto ai visitatori. Salita una gradinata, si accede al cortile d’ingresso. Qui si acquistano i biglietti. Non siamo ancora entrati nel museo vero e proprio, ma già si percepisce la grandiosità dell’abitazione. La posizione, i fiori, i colori e i profumi parlano di un posto perfetto per un ritiro artistico.
Marika decide di sedersi a godere del fresco del giardino, così io mi procuro il biglietto e inizio la mia visita passando sotto un arco rotondo che fa da ingresso al cortile principale. Vengo accolto da un inserviente che mi porge un pellicano… Avrei preferito una bibita fresca, ma fa lo stesso.
Il ragazzo posa il grande volatile sul mio braccio e mi invita a non muovermi. Dopodiché prende un pappagallo appollaiato su un trespolo e lo posa sulla mia spalla sinistra. Gli do la mia telecamera invitandolo a filmare in fretta prima che il pellicano sgranocchi del tutto la mia collana maori. Ridò molto volentieri i due uccelli al ragazzo e continuo la visita che, ora, mi porta in un grande prato con una fontana al centro. Da qui inizia la scalinata d’ingresso che passa sotto un grandissimo arco intagliato in una forma decisamente artistica.
Oltre la scalinata si accede al salone centrale da una porta dorata. Da qui in poi, non è possibile scattare foto. Il primo e il secondo piano del salone ospitano un gran numero di quadri dipinti dall’artista. Per la maggiore, l’oggetto delle opere verte su corpi di donne asiatiche dalle forme sinuose.
– Hai capito Don Antonio… – Ridacchio tra me e me.
Dal secondo piano si può accedere alla terrazza dove alcune statue dorate dalle figure femminili, vestite in abiti tradizionali, si tendono verso l’orizzonte in pose di danza. Da qui si gode del panorama sulla foresta e sui tetti del villaggio circostante. Scendendo di nuovo al piano terra, si possono visitare l’abitazione privata, i salotti e lo studio di Antonio Blanco dove, su di una teca, giace ancora l’ultima opera che l’artista non è riuscito a terminare.
Raggiungo Marika che riposa all’ombra delle palme nel cortile d’ingresso e insieme usciamo. Il pomeriggio ha portato come sempre il suo caldo torrido. Sentiamo il bisogno di trovare un posto tranquillo. Passando su di un ponte, notiamo un fiume che scorre in una vallata e, tra il fitto della foresta, scorgiamo un bellissimo tempio immerso nel verde. Raggiungiamo un sentiero che porta proprio davanti all’entrata. Purtroppo il cancello è chiuso, ma notiamo un cartello che segnala le Rice Terrace. Non si tratta delle famose risaie di Tegallalang, dove è stato girato “Mangia , prega, ama”, ma ci sembra comunque un ottimo diversivo per scappare dal traffico e dalla calura della cittadina. Ci incamminiamo su per un sentierino che costeggia il tempio e che prosegue circondato dai campi. Arriviamo sul crinale di una collina dove hanno inizio i terrazzamenti in cui si coltiva il riso. Passiamo in mezzo ad un viottolo con qualche abitazione ai lati. Nel mezzo delle risaie, scorgiamo dei contadini che, sotto il sole battente, tagliano e percuotono le piante di riso. Tra loro ci sono uomini e donne vestiti con abiti chiari e sottili che permettono loro di sopportare questa temperatura. Camminiamo per diversi chilometri fino a quando siamo completamente isolati dal resto della città. Dove le costruzioni finiscono, il panorama si apre sulle verdi terrazze del riso che si colorano della luce del tramonto. Ci fermiamo qui a goderci finalmente un po’ di silenzio. La posizione rialzata rispetto alla cittadina permette al vento di arrivare a darci un po’ di sollievo. Solo quando il sole è basso, torniamo sul sentiero che ci riporta a Ubud. Sulla via incrociamo diversi camion carichi di contadini che tornano a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Tutti quanti ci salutano e sorridono. Chissà cosa penseranno di noi che giriamo nei nostri bermuda e nelle nostre infradito mentre loro hanno passato la giornata a faticare nei campi di riso. Non so cosa pensino di me, ma sui loro volti leggo solo sorrisi divertiti e una grande dignità. Non so perché, ma mi viene da sentirmi piccolo di fronte alla grandiosa semplicità di queste anime.
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