Ho passato così tanto tempo immerso nelle mie introspezioni in quel capanno sulle Waitakere Ranges che quasi mi sono dimenticato dove sono e perché ci sono venuto.
Ero partito per la Nuova Zelanda con l’ispirazione che avevo ricevuto dalle immagini e dai racconti dei luoghi di questa terra. L’inverno passato a casa di Giovanna, immerso nella scrittura, è stato certamente uno dei periodi più sensati di tutta la mia vita, ma uno come me, prima o poi, ritorna a sentire quel prurito del viaggiatore.
Per muoversi su una terra selvaggia, distribuita su due isole che insieme contano quattro milioni e mezzo di abitanti (di cui un milione e mezzo sono concentrati a Auckland), serve il mezzo giusto.
Ad eccezione delle città, dove il settore del turismo può contare su alberghi e sistemazioni di ogni genere, il resto della Nuova Zelanda è caratterizzato da luoghi piuttosto sperduti, dove diventa difficile incontrare anima viva. Il tutto sembra un invito a nozze per me che amo da sempre la natura incontaminata. Le problematiche legate ad un viaggio del genere, ad ogni modo, esistono eccome!
Scorrendo la lista delle attrazioni che voglio visitare e confrontandomi con la cartina, mi rendo conto che molto spesso mi ritroverò praticamente nel mezzo del nulla.
La soluzione più rapida al tutto sarebbe il noleggio di un camper. Nel caso scegliessi questa opzione, però, il mio budget di viaggio mi permetterebbe di durare al massimo un paio di settimane; invece io questa Nuova Zelanda la voglio vedere tutta, bene e con i tempi che il viaggio detterà. Perciò devo pensare a qualcos’altro.
Fortunatamente il mercato dell’usato, qui come in Australia, offre ai giovani squattrinati una miriade di possibilità tra le auto che una persona sana di mente non comprerebbe mai.
Così spendo intere settimane a spulciare siti internet impostando la mia ricerca dal mezzo più economico a quello più caro e non andando mai oltre la seconda pagina dell’elenco.
Finisco per visitare anche qualche inserzionista. Mi ritrovo in casa di famiglie che aspettano il quinto figlio e hanno bisogno di vendere l’auto vecchia per una più grande; in officine dall’aria poco raccomandabile; in fattorie sperdute a trattare con un contadino per la sua auto di trent’anni fa (o di quello che ne rimane).
Se volessi stare basso, potrei avere una macchina per soli seicento euro. Tuttavia ho trentadue anni: troppi per fare viaggi di migliaia di chilometri senza ammortizzatori e troppo pochi per rischiare di lasciarci le penne in un trabiccolo arrugginito.
I giorni passano e il mio setaccio si ferma per un colpo di fulmine. Parcheggiato in un vialetto fangoso, giace un vecchio furgoncino a otto posti che ha la forma di una gigantesca supposta.
Io, che sono un tipo romantico, rivedo in quella forma bislunga e nel colore bianco che risplende sotto i centimetri di sporco, uno dei miei miti di bambino. Ebbene sì, quel camioncino mi ricorda all’istante la balena bianca protagonista di uno dei miei romanzi d’avventura preferiti: Moby Dick di Herman Melville. Decido che comprerò quell’auto e che la battezzerò The Whale (La Balena)!
Cerco di nascondere la mia scelta avventata al proprietario per tentare di abbassare il prezzo. Lui mi assicura che il mezzo è in buono stato e che non ha mai avuto problemi nemmeno sulle lunghe tratte. Io cerco di far leva sulle condizioni di abbandono e sulla sporcizia. All’interno ci sono almeno dieci chili di polvere e cinque famiglie di ragni. Non saprei spiegarmi come mai ci sono delle manate di vernice bianca sugli interni e la muffa è cresciuta intorno ai finestrini e al tettuccio. Il tettuccio… Se ci si sdraia nel retro, si può godere della vista del cielo da un’apertura di vetro oscurato che si può chiudere e aprire elettronicamente… Questa macchina deve venire con me!
Il prezzo, però, è ancora troppo alto se penso che dovrò lavorarci non poco per rimetterla in sesto. La trattativa dura ben quattro giorni tra telefonate ed email. Fortunatamente Giovanna interviene e, con il suo charme da agente professionista, riesce a convincere il capofamiglia figiano a lasciar andare la sua Toyota Lucida del 1998 a duemila e quattrocento dollari (qualcosa come millecinquecento euro). Quando esco dall’ufficio della motorizzazione dove ho concretizzato l’acquisto, pago il vecchio proprietario che mi augura buon viaggio e se ne va col malloppo. David sale in auto con me per controllare che mi riabitui a guidare con il volante a destra. Dopo qualche chilometro tentennante, le reminiscenze della mia esperienza australiana mi sgranchiscono la guida e inizio a premere sull’acceleratore per vedere come reagisce il motore. Beh, il motore non reagisce affatto bene… Arrivato a duemila giri, al momento dell’innesco del turbo, sento uno scoppio e l’auto perde improvvisamente di potenza. Fatico a credere che la macchina che ho comprato due minuti prima mi sia già esplosa sotto il culo. Tra un’imprecazione e l’altra riesco ad arrivare davanti ad un meccanico. L’uomo solleva l’auto sul ponte e fa un controllo. Il guaio è che uno dei tubi si è staccato perché si tratta di un ricambio non originale… A sentire l’esito del controllo sembra che nulla lo sia… A quanto pare, ho acquistato una specie di macchina “Frankenstein”. Il mezzo deve avere avuto un incidente e buona parte di quello che sto guidando arriva da pezzi di altre auto riadattati per quel telaio. Questa novità mi fa quasi cadere svenuto. Credo che nel mio paese non sia nemmeno legale permettere a una “cosa” del genere di circolare. Ci pensa David a tranquillizzarmi: in Nuova Zelanda è tutto normale. Quella di ricomporre vecchie auto con pezzi simili è una pratica comune in un paese abituato ad essere isolato dal resto del mondo con i suoi ricambi originali. Il meccanico ripara il tubo per una ventina di dollari e si complimenta con me per il mio acquisto. Continuo a chiedermi se mi stesse prendendo in giro mentre riporto David a casa.

La mia sistemazione nel quartiere Orakei
La mia nuova macchina mi costa un mezzo infarto e quasi tutto quello che rimaneva del mio budget di viaggio. Nei mesi successivi riesco a trovare un lavoro come responsabile di reparto in un supermarket. In primavera mi trasferisco in città e finisco a vivere in una grande casa nel quartiere di Orakei. Condivido l’abitazione con altre tre persone che hanno su per giù la mia età. La stanza che ho affittato è completamente vuota. Recupero il materasso di un’amica e con i bancali che trovo in giardino mi costruisco un letto. Tiro avanti tre mesi in quello che definisco Saving Mode. Sostanzialmente lavoro il più possibile e mi concedo pochissime spese oltre al mantenimento. All’inizio dell’estate ho già recuperato i soldi dell’auto e messo da parte una cifra sufficiente per il viaggio che sto programmando. Il mio contratto di lavoro scade proprio quando scoppia il caldo sull’isola del nord. Ad Auckland si vive bene, dalla mia casa il mare dista solo pochi centinaia di metri e dal vialetto riesco a vedere il CBD con la sua Skytower. I miei coinquilini sono ragazzi fantastici. In nove mesi di vita neozelandese ho incontrato nuovi amici e visto alcuni di quelli vecchi incrociare la mia rotta fin quaggiù. La compagnia per cui ho lavorato mi ha anche proposto di rimanere con un visto di lavoro. Questo significherebbe saltare l’estate e dover rimandare il viaggio che ho pianificato di un altro anno. Anche se allettato, rifiuto il rinnovo del mio contratto e mi preparo a lasciare Auckland.
Prima che me ne vada, Tim, il mio coinquilino di Orakei, mi lascia un foglietto con una lista di cose che dovrei visitare nell’Isola del Sud, dove lui è cresciuto. Il vantaggio di avere amici tra i locali è che si finisce sempre con lo scoprire posti sconosciuti e meno accessibili al turismo di massa. In alcuni casi ci si ritrova a visitare vere e proprie “perle nascoste”.
È il mese di febbraio quando richiudo dietro di me la porta della buffa casa di Orakei dove lascio la visione, caldeggiata per tanto tempo, di iniziare una nuova vita in Nuova Zelanda. Non è una scelta semplice, ma sento che questo non è il tempo dei compromessi. In ogni momento della vita di tutti noi ci sono delle priorità. Adesso, è per me il tempo dell’avventura.
Mi trasferisco da David nella sua villetta di Te Atatu. David è stato il primo degli amici neozelandesi che ho incontrato. Gli ho stretto la mano la mattina seguente al mio arrivo dall’Italia e da quel giorno ne abbiamo vissute un bel po’ insieme tra gite in mountain bike, camminate, confessioni, bourbon e suonate di chitarra.
Nella lista delle mie skills non compaiono certo la praticità e la manualità. D’altro canto, che ti aspetti da uno che ha fatto filosofia?!
Per fortuna ci sono gli amici. E per fortuna il mio migliore amico è un esperto geometra con la passione per il bricolage!
David si è offerto di ospitarmi a casa sua per aiutarmi a trasformare la mia auto in un vero e proprio camper fai da te.
Usando il programma con cui progetta case, ha disegnato una struttura di legno da inserire al posto dei sedili posteriori (il video del progetto lo puoi trovare qui). Il patto era che avremmo lavorato insieme al progetto Whale, ma, dopo che ho sbagliato a trapanare, a piantare i chiodi e dopo essermi martellato un dito, abbiamo deciso che mi sdebiterò in cucina. Per ripagare David del suo aiuto, mi propongo di procurare il cibo e di cucinare per tutti gli ospiti della sua casa per tutto il tempo della mia permanenza. Dopotutto sono italiano e posseggo il gene della buona cucina nel patrimonio genetico… Almeno credo…
Nel frattempo Marika, la mia ragazza, mi raggiunge dall’Italia. Non so se sia venuta fin quaggiù per strozzarmi o per continuare la nostra relazione che ha vissuto a distanza per tanto tempo. Restiamo per due settimane da David e ci prendiamo cura della casa e della cucina, mentre lui lavora sulla Whale.
Marika si è fatta ventiquattr’ore di volo per vedere paesaggi mozzafiato, ma io nei suoi primi giorni neozelandesi la costringo a un giro turistico di tutti i negozi di bricolage. Il materiale che ci serve per il viaggio è davvero tanto ed è anche costoso. Un giorno, mentre sto aiutando Giovanna con il volantinaggio per la sua attività immobiliare, mi imbatto in un mucchio di legname e cianfrusaglie che aspettano il camion della spazzatura abbandonate fuori da un garage. Suono il campanello della villetta e chiedo alla proprietaria il permesso di frugare in quella catasta. Quel pomeriggio me ne vado con gran parte del legno che mi serve. In aggiunta trovo anche delle utilissime sedie da campeggio e una vecchia mazza da baseball che mi tengo in caso di brutti incontri durante il viaggio.
Dopo aver setacciato anche il garage di Giovanna e di altri amici in cerca del resto dei pezzi che mi servono, la mia lista si assottiglia sensibilmente. Torno ai negozi, approfittando dei saldi per l’inizio dell’estate e compro il resto dell’occorrente.
Apollonia, la madre di David, torna alla sua macchina da sarta professionale dopo vent’anni di pensione per cucire le tendine per il retro dell’auto. In due settimane di lavoro incessante di tutti i miei amici e di ricerche su e giù per i garage e i negozi di Auckland, la Whale è pronta per salpare.
Sul retro, al posto dei sei sedili per i passeggeri, è montata una struttura in legno composta di due cassapanche apribili dove immagazzinare vestiti, vivande, attrezzi e materiale da viaggio. Tra le due panche c’è un tavolino pieghevole che, una volta abbassato, va a far parte della struttura del letto che si completa con un materasso arrotolabile. Aprendo il portellone posteriore, si accede alla cucina. Un banco di legno collegato a dei cardini scende a formare un piano di lavoro, mentre una struttura a ripiani ospita il fornello, la bombola a gas, le stoviglie e l’occorrente per cucinare. Nella stiva sottostante ci sono i contenitori ermetici per i viveri, la tanica dell’acqua, le padelle e un frigorifero portatile a ghiaccioli. Il costo di tutta l’attrezzatura è stato di circa mille dollari (seicento euro).
Se penso a quanto mi sarebbe costato un camper a noleggio, mi sento soddisfatto della mia scelta, ma devo considerare che l’auto in questione ha vent’anni, che non c’è nessuna garanzia sul fatto che non si rompa o sul fatto che la struttura di legno regga. Certo, ho risparmiato molti soldi, ma ho la completa responsabilità del mezzo. Se riesco ad andare e tornare da questo viaggio, potrò anche rivendere il mio camper per un buon prezzo, ma se la Whale mi pianta in asso sono fregato!
– Anche questa è avventura, baby! – Mi dico osservando la mia “balena bianca” pronta a gettarsi sulla strada.
Prima di partire per l’Isola del Sud, Marika ed io faremo una gita inaugurale di tre giorni sulla costa per fare una prova generale del mezzo. Se la Whale ci sarà fedele, butteremo gli zaini in macchina e partiremo per un viaggio lungo, incerto e affascinante.
Ho impiegato un anno a progettare tutto questo. Se penso a come e perché sono arrivato quaggiù, mi sembra tutto surreale. Le cose lasciate in Italia, lo sconforto iniziale e l’ennesima rinuncia alla proposta di una stabilità in questa città magnifica in favore dell’incertezza del viaggio… Ne varrà davvero la pena?La mia balena bianca è pronta a portarmi verso le acque sconosciute di una vecchia promessa.
Apro il mio laptop e cerco le parole di Moby Dick, il romanzo a cui ho dedicato il nome del mezzo col quale attraverserò la Nuova Zelanda. Mi imbatto nell’inizio del testo:
-Avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po’ per mare, e vedere la parte equorea del mondo. È un modo che ho io di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione. Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico Catone si butta sulla spada: io zitto zitto m’imbarco. E non c’è niente di strano. Se soltanto lo sapessero, prima o poi quasi tutti nutrono, ciascuno a suo modo, su per giù gli stessi miei sentimenti per l’oceano.–
Capitano, siamo pronti a mollare gli ormeggi!
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