L’ufficiale della dogana stampa energicamente un timbro sui nostri passaporti e ci dà il benvenuto in Indonesia. Già dall’interno della sala del recupero bagagli si può sentire il frastuono caotico della città di Denpasar, capoluogo della reggenza di Gyanar. Oltre al rumore, l’altra differenza lampante rispetto alla Nuova Zelanda è il caldo torrido. Anche se siamo ancora all’interno dell’aeroporto, protetti dall’aria condizionata, la differenza di temperatura e di umidità è già percepibile.
Raccogliamo i bagagli e ci prepariamo a muovere i nostri primi passi sulle strade della famigerata Bali. Mi sono sempre chiesto cosa ci fosse di tanto speciale in quest’isola di cui molti, soprattutto down under, parlano. Quando ho chiesto agli amici di consigliarmi una destinazione in cui avrei trovato “quel che non c’è in Nuova Zelanda”, tutti quanti non hanno esitato a consigliarmi questa destinazione.
Sembra che la mia astinenza di storia, spiritualità e cultura antica stia finalmente per finire.
Molte facce che incontro mi scrutano in modo piuttosto ambiguo. Chissà cosa penseranno nel vedermi con tutti questi bagagli… Gli altri turisti hanno con sé soltanto una valigia o uno zaino. Marika ed io sembriamo due muli schiacciati sotto i nostri grandi zaini da trekking, mentre trasciniamo due trolley, di cui il mio è particolarmente grande e pesante. D’altronde loro non possono sapere che lì dentro c’è l’ultimo anno e mezzo della mia vita in Nuova Zelanda (inverno compreso). Appena mettiamo il naso all’esterno dell’aeroporto, la vampata di calore si unisce alla vampata di voci dei vari taxisti (o presunti tali) che ci assalgono per accaparrarsi il mandato del nostro trasferimento. Non c’è modo di spiegare che abbiamo già prenotato lo shuttle del nostro hotel… Alcuni di loro giurano che mi faranno risparmiare. L’unica frase che sembra funzionare contro l’orda è “ho già pagato”.
Dopo circa dieci minuti netti di sgomitate riusciamo a raggiungere la strada dove scorgiamo l’incaricato del nostro hotel. Il ragazzo non parla inglese, ma ci fa cenno di seguirlo. Arrivati all’auto, inizia a caricare i bagagli e io mi offro di aiutarlo. Mi fa capire che farà da solo, ma, arrivato il momento del mio trolley, cambia idea, così gli do una mano.
L’impatto con le strade di Bali è proprio come ce lo avevano descritto: un grande caos, quasi nessuna segnaletica e una quantità di motorini impressionante che schizzano ovunque come schegge impazzite. Suonare il clacson sembra il passatempo locale e, dopo venti minuti spesi cercando di capire la ragione delle “strombazzate”, mi metto il cuore in pace.
Non sono sicuro che ci sia un codice della strada in vigore quando vedo un’intera famiglia su di uno scooter sfrecciare davanti ad un poliziotto che tenta (invano) di dare un senso al traffico.
Nel frattempo lasciamo Denpasar in direzione dell’entroterra. Capisco immediatamente la ragione per cui Bali è chiamata l’Isola dei templi. Ai lati della strada, all’ingresso delle case, si intravedono costruzioni di pietra finemente scolpite che formano altari, che incorniciano le effigi delle divinità e che arricchiscono letteralmente ogni cortile, facendolo sembrare un luogo di culto. La qualità delle sculture è così pregiata che non riesco a distinguere i templi veri e propri dalle normali abitazioni.
Di tanto in tanto, dal verde delle aiuole o posizionate sulle rotatorie, spuntano imponenti statue bianche di figure a metà tra l’umano e il divino dai corpi atletici, che brandiscono spesso armi come scimitarre o archi.
Più ci allontaniamo dalla città, più la strada diventa approssimativa e scompare la segnaletica orizzontale. Le contrade che attraversiamo sono costituite da una via centrale asfaltata su cui si affacciano due file di edifici, molti dei quali ospitano minuscole botteghe che vendono un po’ di tutto: polli spennati, benzina in bottiglia, vestiti e SIM per cellulari. Perpendicolarmente alla strada principale si staccano strette stradine di terra che si perdono in un agglomerato poco simmetrico di altri edifici e cortili.
Nonostante la città sia ormai lontana, il traffico e i colpi di clacson non ci abbandonano. Spesso vedo motorini sorpassarci in contromano e altri sgattaiolare tra le auto in fila con manovre a dir poco azzardate. La cosa che mi sorprende maggiormente è la calma e la tranquillità con cui tutti quanti accettano questa anarchia stradale. Tutti suonano il clacson, ma non lo fanno con rabbia o per ripicca. Inizio a credere che si tratti di qualcosa di folkloristico.
L’atmosfera è torrida, caotica, rumorosa e c’è odore di bruciato. Ho sempre odiato il caldo, il rumore e la folla; eppure in questo posto tutto sembra stranamente coerente.
Non sono mai stato in Asia prima d’ora, ma non ci ho messo un secondo a venirne rapito. Passo l’intero viaggio verso l’hotel a riempirmi gli occhi di ogni dettaglio che scorre fuori dal finestrino. Volevo qualcosa di veramente diverso da tutto ciò che avevo visitato finora… Beh, eccomi accontentato!
La città di Ubud, nell’entroterra di Bali, è la nostra destinazione. Ho sentito parlare dei sui templi, del palazzo reale e delle risaie diventate celebri con il romanzo Mangia, prega, ama.
Ad un tratto il nostro guidatore svolta all’interno di una piccola contrada. Abbiamo scelto un hotel fuori dal centro. Sappiamo che, a dispetto della sua diffusa spiritualità, Ubud è una cittadina piuttosto caotica e che brulica di turisti. Proprio al limite del paesino, quando le costruzioni stanno per lasciare spazio alle coltivazioni, una stradina ci conduce all’interno del resort che abbiamo scelto per le nostre prime tre notti balinesi. È da quando sono partito dall’Italia che non metto piede in un albergo. Dopo due mesi a vivere su un’auto, lo considero come un premio a me stesso e alla mia schiena.
Diversi inservienti e le ragazze della reception intervengono per salutarci e prendersi cura dei bagagli. Mentre compiliamo i moduli con i nostri dati, ci viene servito un cocktail di frutta fresca. Il benvenuto non poteva essere migliore.
Dopo averci spiegato come funzionano i servizi e il ristorante veniamo accompagnati alla nostra camera. La struttura dell’hotel è quella tipica del villaggio vacanze, con piccoli appartamenti dislocati nell’area attorno alla piscina. Quando il nostro accompagnatore apre la porta della camera, mi stupisco che con soli 25 euro al giorno ci siamo potuti permettere una sistemazione del genere. La camera è rifinita e arredata in modo raffinato e il bagno è gigantesco con una grande vasca in pietra e una doccia completamente aperta. Non so come si usa da queste parti e faccio capire al nostro accompagnatore che non ho con me spiccioli per la mancia. Gli dico che ci aggiusteremo più tardi. Non so se lui abbia capito, ma mi fa cenno che va bene.
Il giorno seguente rivedo quel ragazzo e gli offro una mancia per essersi fatto carico del mio trolley di piombo. Il giovane mi sorride e, con un inglese accennato, mi dice: – Mister, l’albergo mi paga già abbastanza bene per portare le valigie. Il mio lavoro mi dà abbastanza soldi per fare vivere bene me e la mia famiglia. Se cominciassi a volerne di più, probabilmente inizierei a volerne sempre di più e, alla fine, i soldi mi allontanerebbero dalle cose importanti. Ti ringrazio per la tua offerta, ma non è necessaria. Una volta che si ha la pancia piena, bisogna pensare allo spirito! –
E così sia.
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