Quando partii dall’Australia per ritornare a casa mi chiesi quando avrei ancora avuto l’occasione di spingermi in un posto del genere, tanto lontano e diverso da quello in cui ero cresciuto. Potevo giurare che sarebbe passato almeno un decennio prima di poter rivivere qualcosa di simile. Invece eccomi lì, a un anno dal mio ritorno a casa, con in mano un biglietto per una destinazione ancora più lontana. Se l’Australia è chiamata The Land Down Under, questa volta io mi sarei spinto ancora più down e ancora più under.
Cosa ci facevo di nuovo con la valigia in mano e perché proprio la Nuova Zelanda era la mia destinazione?
Mi piace molto il termine “destinazione”. Fa pensare che, in qualche modo, le nostre mete, o almeno quelle più significative, siano state decise prima ancora che la nostra mente iniziasse a considerarle. Un po’ come se ci fosse di mezzo il destino.
Mai come in quel momento della mia vita, io ho creduto all’esistenza di una mano invisibile che guidasse i miei passi.
L’anno che ho trascorso in Italia, dopo il viaggio australiano, è stato tutt’altro che roseo. Ero tornato perché dovevo aiutare mia madre con un trasloco, ma non mi sarei aspettato che in realtà in serbo per lei ci fosse una sfida ben più ardua di quella del cambio di domicilio.
Quando ancora non sapevo nulla di quello che mi avrebbe aspettato, ho richiesto il visto per la Nuova Zelanda. Non avevo davvero intenzione di andarci, ma il mio ritorno non era stato dei migliori e sentivo che probabilmente la voglia di viaggiare non avrebbe tardato a rifarsi viva. Per richiedere il visto vacanza/lavoro, avrei dovuto sbrigare le pratiche entro l’imminente compimento del mio trentunesimo anno di età. Ho inoltrato la richiesta da ubriaco, dopo una serata al liquore con alcuni amici. Lo considerai un “piano B” che mi regalavo per i miei trentuno anni. Dal momento dell’approvazione del visto avrei avuto altri dodici mesi per entrare nel paese e, dal momento di entrata, altri dodici da spendervi.
Quando seppi del cancro di mia madre misi il mio passaporto in un cassetto insieme al resto dei miei progetti.
Un anno passa tanto in fretta quando tutto scorre in modo naturale. Non è così che va quando ogni giorno vivi un calvario. I dodici mesi più brutti della mia vita passarono lenti e alla fine portarono quello che dovevano. Mia madre si era spenta esattamente un anno dopo che io ero tornato a casa.
In una di quelle giornate infernali in cui lei si trovava all’ospizio per i malati terminali, ero entrato nella stanza. Quel giorno, avevo incontrato il destino sotto forma di due vecchi amici di famiglia che non vedevo da anni. Nel chiacchierare mi raccontarono di loro figlia. Io avevo solo qualche ricordo lontano di lei da ragazzina quando io di anni ne avevo circa una decina. Mi dissero che si era trasferita in Nuova Zelanda e che, sapendo dei miei viaggi, aveva chiesto loro di lasciarmi il suo contatto.
Iniziai a sentire Giovanna mentre mia madre era ancora in vita (se così si può dire). Ad ogni videochiamata vedevo il paesaggio meraviglioso di quella terra lontana e giorno dopo giorno iniziavo a sentirne il richiamo. Ancora una volta dovevo trattenermi. Ora c’era bisogno di me a casa e non potevo abbandonarmi che a fantasie.
Sebbene in modo molto diverso da quello che avrei sperato, anche quel mio calvario personale finì. La vita si era portata via un’altra delle mie certezze, la più grande.
Ci sono momenti in cui partire smette di essere solo un vezzo e finisce con l’assomigliare molto di più a un bisogno.
Nel giro di due mesi lasciai il lavoro, sistemai le faccende burocratiche legate alla morte di mia madre, chiusi in una parentesi la mia relazione e mi presentai all’aeroporto con il visto e il passaporto che avevano atteso nel mio cassetto.
Atterrai ad Auckland pochissimi giorni prima della scadenza dell’ultima data utile sul visto. Ho vissuto con Giovanna e la sua famiglia per quattro mesi nei quali mi sono dedicato alla scrittura. Finito l’inverno ho trovato lavoro e mi sono trasferito in città. Con i soldi risparmiati ho comprato una vecchia auto a otto posti che giaceva abbandonata in un vialetto, ho rimosso i sedili posteriori e, con l’aiuto del mio amico David, l’ho trasformata in un camper utilizzando legno di scarto e materiali recuperati. La mia ragazza mi ha raggiunto dall’Italia e insieme abbiamo viaggiato a bordo della Whale (così abbiamo ribattezzato il mezzo, in onore di Moby Dick).
Con il nostro camper fai da te abbiamo girato in lungo e in largo le due isole vivendo on the road per due mesi.
A chi mi chiedeva perché avevo deciso di partire proprio dopo un brutto periodo come quello appena trascorso in Italia avevo risposto che la vita mi aveva regalato un anno di cacca, così mi sembrava giusto andare a prendermene uno meraviglioso. Così è stato!
I miei giorni neozelandesi sono stati un riscatto.
Ti racconterò di una terra tanto incantevole da far credere che il paradiso esista davvero, di un viaggio a bordo di un buffo camioncino che ha visto ghiacciai, vette innevate e spiagge bruciate dal sole. Ti parlerò di un posto dove ci si può ancora permettere di vivere liberi e dormire sotto le stelle.
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